Le principali evidenze empiriche
- Il profilo sociodemografico e familiare della popolazione detenuta milanese
- Provenienza geografica
- Condizione giuridica e dati sulla carcerazione
- Istruzione, formazione e lavoro
- La condizione abitativa
Il profilo sociodemografico e familiare della popolazione detenuta milanese
Dai dati raccolti è risultato che più della metà delle persone detenute che hanno compilato il questionario
aveva al momento dell’indagine meno di quarant’anni, quasi il 40% ne aveva meno di trentacinque e poco
meno di un quarto dei detenuti non aveva ancora raggiunto i trent’anni di età. L’indagine ha quindi
confermato il dato ampiamente noto sulla giovane età delle persone detenute; sovrastimata rispetto ai
dati ufficiali è solo la quota di popolazione detenuta con più di cinquanta anni di età, che comunque si è
confermata una netta minoranza nel campione di intervistati. Tra le donne detenute l’età media ricavata
attraverso i questionari è risultata essere lievemente più alta rispetto agli uomini (40,5 anni, mentre tra i
maschi è stata calcolata in 38,7 anni), con una cospicua quota di detenute con più di cinquanta anni (circa
un quarto delle rispondenti) ma al tempo stesso frequenze inferiori rispetto agli uomini nelle classi di età
mediane (le detenute trentenni costituivano ‘solo’ poco più di un quarto del campione, mentre tra i maschi
la fascia di età tra i trenta e i trentanove anni raggruppava da sola più di un terzo dei casi).
Per quanto riguarda la composizione del nucleo familiare, è risultato che quasi la metà dei detenuti
milanesi che hanno partecipato all’indagine viveva una relazione di coppia: il 28,5% ha dichiarato di
essere sposato e il 18,4% convivente; il 15,6% risultava invece separato o divorziato e il 34,4% era celibe
o nubile. Le donne in carcere sono risultate meno frequentemente nubili e non conviventi rispetto all’intera
popolazione detenuta; anche le donne sposate risultavano meno rappresentate, mentre è risultata più
cospicua la quota di donne conviventi (non sposate). Ma il dato che caratterizzava maggiormente la
popolazione detenuta femminile è stato la maggior frequenza di rapporti matrimoniali interrotti: risultava
infatti sensibilmente più elevata della media la percentuale di donne divorziate o separate, così come
anche la percentuale di vedove risultava essere superiore a quella calcolata sull’intera popolazione
detenuta.
I detenuti che hanno dichiarato di avere figli sono stati complessivamente 721, pari al 57,6% dei
rispondenti2. Nella maggioranza dei casi i figli erano uno o due; meno frequenti, anche se comunque non
rari, i casi di genitori detenuti con famiglie numerose. Dalle risposte raccolte presso gli istituti milanesi è
stato possibile calcolare che i figli delle persone che hanno risposto al questionario erano, al momento
dell’indagine, almeno 1.431. Rapportata al numero di uomini e di donne che hanno risposto al
questionario, la percentuale delle madri è risultata significativamente più numerosa di quella dei padri.
Data la giovane età dei genitori detenuti, i figli risultavano essere per lo più giovani e giovanissimi: circa il
60% dei figli di adulti detenuti a Milano risultava avere meno di 18 anni e quasi il 50% meno di 14; molti
(poco meno del 20%) i figli di persone detenute con un’età compresa tra i 6 e i 10 anni (che dunque
frequentavano – o avrebbero dovuto frequentare – una scuola elementare) e altrettanti erano quelli che al
momento dell’indagine avevano meno di 6 anni.
Provenienza geografica
La maggior parte delle persone detenute nei tre istituti cittadini che hanno compilato il questionario ha
dichiarato che al momento dell’arresto era residente a Milano (più del 40%) o in un comune della provincia
(poco meno di un quarto dei rispondenti); complessivamente quasi l’80% degli intervistati risiedeva in
Lombardia. Gran parte delle persone detenute a Milano era però nata altrove: oltre alla quota cospicua di
detenuti stranieri o di origine straniera (più di un terzo degli intervistati ha dichiarato di essere nato in uno
stato estero), è risultato che circa il 30% dei detenuti nelle carceri milanesi proviene da una regione
diversa dalla Lombardia – prevalentemente regioni del Sud Italia o isole – mentre solo un terzo dei
rispondenti era originario della Lombardia e, tra questi, solo poco più di un quarto provenienti da Milano e
provincia.
Le persone di nazionalità straniera che hanno scelto di partecipare all’indagine sono state numerose;
hanno infatti risposto al questionario 465 cittadini stranieri, pari al 35,6% del totale del campione. Al
momento dell’indagine, la maggior parte degli intervistati stranieri (più del 60%) viveva in Italia da meno
di dieci anni; rispetto al passato è stato registrato un significativo cambiamento: nel giugno del 1995 una
indagine condotta a San Vittore3 indicava infatti che la netta maggioranza dei detenuti stranieri di allora
(esattamente il 57%) era arrivato in Italia da meno di cinque anni mentre – in linea con la sedimentazione
del fenomeno migratorio nel nostro paese – l’indagine del 2006 ha ridotto questa quota a meno di un
quarto.
Questa maggiore ‘anzianità’ migratoria della popolazione straniera detenuta a Milano fornisce interessanti
indicazioni riguardo alle trasformazione avvenute nei processi penali che coinvolgono le persone migranti.
Una consistente quota (più del 40%) delle persone detenute straniere che hanno risposto al questionario
ha dichiarato di non aver mai potuto regolarizzare la propria presenza in Italia e la maggioranza dei
detenuti stranieri intervistati (56,5%) non possedeva un permesso di soggiorno al momento dell’ingresso
in carcere; questa frequente condizione di ‘irregolarità’ è un dato comune a tutta la componente detenuta
straniera, anche se il dato diventa decisamente più marcato tra coloro che hanno dichiarato di essere
arrivati in Italia dopo il 2002, che nella grande maggioranza dei casi non hanno mai potuto aver accesso
ad alcun percorso di regolarizzazione.
Condizione giuridica e dati sulla carcerazione
Chi ha risposto al questionario aveva, per lo più, già subito una condanna definitiva (più di tre rispondenti
su quattro) o quantomeno aveva superato almeno un primo grado di giudizio (quasi l’85% del campione).
Sia tra le donne che tra gli stranieri che hanno risposto sono state registrate percentuali più elevate di
persone detenute in attesa di giudizio; in particolare è risultata molto più elevata la quota di persone
detenute senza aver subito ancora alcuna sentenza di condanna: erano infatti in attesa del primo grado di
giudizio più di un quarto delle donne detenute e poco meno di un quarto degli stranieri (uomini e donne).
La maggior parte delle persone detenute che hanno compilato il questionario non era alla prima
esperienza di detenzione: il 22% degli intervistati era già stato in carcere una volta, circa il 36% più di una,
mentre coloro che non erano mai stati in carcere prima rappresentavano poco più del 40% del totale. Le
donne erano più spesso alla prima esperienza di detenzione (condizione di circa i due terzi delle
rispondenti); raramente erano al secondo ingresso in carcere (poco più del 10%) mentre più frequenti
percentualmente sono risultate le donne detenute con alle spalle diverse esperienze di detenzione (più del
20%). Il fenomeno del reingresso in carcere interessava in misura minore i detenuti stranieri: tra la
popolazione straniera reclusa prevalevano infatti coloro che si trovavano in carcere per la prima volta
(55% dei rispondenti stranieri), mentre la quota di stranieri che aveva già nel proprio passato diverse
esperienze di detenzione è risultata essere quasi della metà di quella registrata tra gli italiani.
Tra gli stranieri è stata riscontrata, oltre alla minore recidiva e alla minore quota di detenuti già giudicati,
anche una durata media della pena inflitta – e conseguentemente della pena residua – inferiore a quella
registrata tra i detenuti italiani. Quasi un quarto dei rispondenti stranieri già condannati avevano subito
una condanna inferiore all’anno, mentre tra gli italiani questa percentuale calava a meno del 7%;
viceversa, a fronte dei quasi due terzi di detenuti italiani condannati a una pena superiore ai quattro anni,
la quota di detenuti stranieri con una condanna così elevata scendeva a meno del 45%. Analogamente è
risultata più alta la percentuale di detenuti stranieri condannati che avevano meno di un anno di pena
ancora da scontare (circa il 30%, contro il 17% degli italiani).
Istruzione, formazione e lavoro
Per quanto riguarda il livello di istruzione, dall’indagine si è potuto ricavare che circa un quarto delle
persone detenute nelle carceri milanesi non aveva terminato la scuola dell’obbligo, tra cui molti (quasi il
10%) non avevano conseguito neanche la licenza elementare; il totale di coloro che avevano raggiunto al
massimo la licenza media inferiore sfiorava il 70% dei detenuti milanesi, mentre erano meno di un terzo
coloro che possedevano un titolo di istruzione superiore, spesso un semplice attestato di qualifica
professionale. Soltanto il 3,7% dei detenuti intervistati risultava essere laureato. Tra le persone detenute di
origine straniera che hanno risposto al questionario si registrava più frequentemente che tra gli italiani un
livello di istruzione medio-alto (circa un quinto dei detenuti stranieri contro poco più del 10% degli italiani
ha infatti dichiarato di essere diplomato, con una quota di laureati di circa il doppio rispetto agli italiani);
d’altro canto tra gli stranieri sono state registrate anche percentuali più elevate di persone prive di
qualsiasi titolo di studio o che comunque non avevano completato un percorso di studi pari a quello della
scuola dell’obbligo italiana: in totale circa un terzo dei detenuti stranieri, contro poco più di un quinto tra
gli italiani.
Riguardo invece alla condizione lavorativa antecedente alla carcerazione, l’indagine ha mostrato come
soltanto poco più della metà dei detenuti aveva al momento dell’incarcerazione un lavoro regolare; quasi il
30% aveva avuto in precedenza esperienze di lavoro regolare ma al momento dell’arresto non aveva un
lavoro, mentre quasi il 20% dei rispondenti ha dichiarato di non aver mai avuto un lavoro regolare nella
propria vita. Spesso, anche tra chi ha dichiarato che aveva un lavoro regolare al momento dell’arresto, si
trattava in realtà di occupazioni non illegali ma comunque ‘in nero’ poiché soltanto in meno di tre casi su
quattro risultava trattarsi di un’occupazione effettivamente in regola dal punto di vista giuslavoristico.
Tra le donne e gli stranieri il rapporto col mondo del lavoro evidenziava una situazione di fragilità ancora
maggiore. Solo poco più di un terzo delle detenute (contro più della metà dei maschi) ha dichiarato che al
momento dell’arresto aveva un lavoro regolare, mentre più di un quarto di loro non aveva mai avuto alcun
lavoro ‘in regola’. Tra gli stranieri, su cui peraltro pesa spesso lo status di irregolarità anche lavorativa
derivante dalla condizione di migrante senza permesso di soggiorno, la quota di coloro che non aveva mai
avuto un lavoro regolare è risultata ancora maggiore: arrivava infatti a sfiorare un terzo dei detenuti non
italiani, anche se vi era comunque una cospicua percentuale di detenuti stranieri (più del 40%) per cui
l’arresto ha comportato l’interruzione di un rapporto di lavoro regolare. In generale gli stranieri detenuti
nelle carceri milanesi presentavano situazioni di forte precarietà lavorativa con frequenza maggiore degli
italiani: al momento dell’arresto erano più spesso disoccupati rispetto agli italiani e molto più spesso degli
italiani lavoravano ‘in nero’. Come era facile aspettarsi, questo dato è risultato fortemente correlato alla
mancanza di regolare permesso di soggiorno, con alte percentuali di lavoro nero (più della metà dei casi) e
di disoccupazione (quasi un terzo) registrate tra chi non aveva mai potuto, neanche nel passato,
regolarizzare la propria presenza in Italia (e il proprio lavoro).
Un dato inquietante è quello relativo alle aspettative che le persone detenute risultavano avere rispetto
alla situazione economica e lavorativa in cui si sarebbero trovati al termine della carcerazione: sono infatti
risultati essere ben pochi i detenuti milanesi che non si aspettavano di dover affrontare difficoltà
economiche all’uscita dal carcere. Per lo più, di fronte alla necessità economiche e materiali che si
prospettavano per il momento della scarcerazione, i detenuti contavano di fare affidamento su se stessi e
di trovare immediatamente un lavoro (più del 45% dei rispondenti); più raramente facevano affidamento
sull’aiuto di amici e parenti o sul supporto del volontariato (in entrambi i casi, poco più del 10% dei
rispondenti). Molti hanno dichiarato di non avere alcuna idea sul come affrontare tali difficoltà, rimandando
la ricerca di soluzioni al momento in cui il problema si sarebbe presentato concretamente (anche in questo
caso, più del 10% dei rispondenti). Tra le donne detenute sono emerse aspettative ancora più negative (la
percentuale di coloro che non si attendevano di incontrare seri problemi economici all’uscita dal carcere è
infatti risultata decisamente più bassa che tra i maschi), così come era ancora più bassa la quota di coloro
che contavano di poter fare affidamento su parenti o amici e più alta quella di donne detenute che hanno
dichiarato di aspettarsi difficoltà materiali ma di non avere idea di come poterle affrontare. Ancora più
drammatiche le aspettative dei detenuti stranieri (la quota di coloro che non si prospettavano problemi
materiali alla fine della carcerazione è risultata addirittura la metà di quella registrata tra i soli detenuti
italiani) ma con un maggiore affidamento sulla possibilità di trovare in un lavoro la risposta alle difficoltà
economiche e materiali che si prospettavano per la fine della carcerazione.
La condizione abitativa
Secondo i dati dell’indagine, al momento dell’arresto meno di un terzo dei detenuti milanesi abitava in una
casa di sua proprietà o di proprietà della famiglia; poco più del 10% viveva in un alloggio di edilizia
popolare regolarmente assegnato, un ulteriore 25% circa aveva un regolare contratto di affitto.
Complessivamente dunque solo due detenuti su tre, tra coloro che hanno risposto al questionario, viveva
in una condizione abitativa regolare prima di entrare in carcere; tra gli altri, le condizioni più frequenti
erano l’affitto senza un regolare contratto e l’ospitalità da parte di parenti, amici o conoscenti. Quasi il 3%
dei rispondenti hanno dichiarato che abitavano in un alloggio occupato abusivamente e una percentuale
ancora più cospicua – quasi il 5% dei rispondenti – ha dichiarato che al momento dell’arresto non aveva
una dimora fissa. Qualcuno abitava in centri di accoglienza o in alloggi di fortuna, in hotel o pensione, in
camere in affitto, in campi nomadi, in case abbandonate, in auto: si tratta di situazioni individuali,
statisticamente poco significative, ma che contribuiscono a delineare una quota rilevante di persone che
non avevano un’abitazione né regolare né adeguata.
Tra gli stranieri – come era presumibile – si sono registrate più frequentemente situazioni di instabilità
abitativa (in particolare decisamente più basse sono risultate le quote di coloro che disponevano di una
casa di proprietà o di una casa popolare, mentre è risultata più elevata che tra gli italiani la quota di coloro
che abitavano in una casa in affitto), e in particolare di irregolarità nell’accesso all’alloggio (quasi il 20%
dei rispondenti stranieri ha dichiarato che viveva in affitto senza un regolare contratto e quasi il 4% che
viveva in un alloggio occupato abusivamente) o di situazioni precarie, frequentemente ospiti di amici o
parenti.
Anche riguardo alle aspettative rispetto alla casa sono emersi dati preoccupanti. Nel questionario erano
state inserite due domande specifiche riguardo alle problematiche abitative che le persone detenute si
prospettavano di dover affrontare al termine della carcerazione. Una domanda riguardava esplicitamente
la possibilità di rientro nell’abitazione in cui si viveva al momento dell’arresto: solo poco più della metà di
chi ha risposto a questa domanda riteneva di poter rientrare nello stesso alloggio al momento della
scarcerazione, mentre ben un quarto dei rispondenti addirittura non sapeva dove sarebbe potuto andare a
vivere fuori dal carcere. Un’altra domanda riguardava invece, più in generale, le aspettative di incontrare
problemi abitativi alla fine della detenzione: affrontata in modo generico, la questione abitativa per le
persone detenute si è rivelata ancora più pressante, con circa la metà dei detenuti milanesi che si
prospettava di dover affrontare un problema abitativo alla fine della detenzione e un quinto dei rispondenti
che ha dichiarato di non aver alcun idea sul come affrontare questa situazione.
Tra le detenute questo dato di incertezza è risultato ancora più alto: più di un terzo delle donne che hanno
risposto al questionario ha dichiarato di non sapere dove sarebbe andata a vivere all’uscita dal carcere e
(sebbene fosse più elevata la percentuale di donne che avevano dichiarato di aver vissuto, fino al
momento dell’incarcerazione, in una casa di proprietà) è risultata molto alta anche la percentuale di donne
che prevedevano di non rientrare nell’alloggio che abitavano, frutto talvolta di una rottura nei rapporti
familiari intercorsa dopo l’arresto.
I detenuti stranieri potevano contare ancora meno su una risorsa abitativa certa (solo meno del 40% di
essi ha dichiarato di poter disporre di una casa propria, contro quasi il 55% degli italiani) anche se, al
momento della scarcerazione, più della metà dei rispondenti stranieri contava di rientrare nell’alloggio
lasciato al momento dell’arresto (percentuale di poco inferiore rispetto agli italiani) e una quota persino
superiore a quella degli italiani ha dichiarato di aver già individuato una soluzione alternativa. Tuttavia
anche tra i detenuti stranieri, più o meno come tra gli italiani, un quinto circa dei rispondenti ha dichiarato
di non sapere come affrontare la situazione.
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